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La bella società
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Giorgio e Giuseppe crescono senza padre nella Sicilia degli anni Sessanta. Devoti alla giovane madre e gelosi della sua bellezza, ostacolano la sua relazione con un aitante produttore romano deciso a corteggiarla e a condurla lontano dalla campagna siciliana. Giocando con la polvere da sparo uccidono accidentalmente l'intraprendente spasimante, occultando il suo corpo e tacendo per sempre la sua morte. Nello stesso incidente perde la vista Giorgio e il sorriso Giuseppe. Diversi anni dopo, sostenuti dal benevolo farmacista del paese, innamorato mai rivelato della madre, decidono di partire alla volta di Torino per ritrovare l'amico Nello, la vista e il futuro. A due passi dalla Mole restano coinvolti loro malgrado nell'efferato omicidio di un dirigente della Fiat freddato dalle brigate rosse. Sopravvive all'attentato la giovane segretaria, testimone soccorsa e poi protetta da Giorgio. L'ingresso di Caterina nella loro vita e nel cuore del fratello minore comprometterà però per sempre il loro fragile equilibrio familiare.
Ancora una volta è la Sicilia la terra abitata dal cinema di Gian Paolo Cugno. È dall'isola di Vitaliano Brancati che si avviano le cronache familiari incarnate da Giorgio e Giuseppe, prossimi al Salvatore orfano e siciliano dell'esordio (Salvatore - Questa è la vita). Questa volta però i bambini “ci guardano” e crescono, diventando giovani nell'Italia degli anni Settanta e poi uomini in quella degli anni Ottanta. Una storia e due caratteri che si disvelano lentamente dentro un'analisi rapida e scadente del Bel Paese. La bella società ribadisce tutto quello che è lecito non sopportare (più) in un film italiano: le canzoni o le bandiere rosse a suggerire la datazione della storia, la descrizione di nord e sud a suon di stereotipi, il sostanziale machismo e la conseguente funzione della donna come inezia narrativa, buona al massimo per sedurre o per essere oggetto di ceffoni e insopportabili sfuriate, la presenza ricattatoria di un invalido da buttare in pasto al melodramma.
Sospeso per estetica e contenuti tra due decadi diversissime (gli anni Settanta e Ottanta), La bella società racconta una storia con una voluta e a tratti artificiosa purezza, che sconfina in ingenuità e nel superficiale recupero filologico-generazionale di musiche, look e affiche. Cinema semplice e semplicistico quello di Cugno che fallisce l'intenzione civile (intrecciare storie individuali e Storia collettiva) lungo maldestre piste gialle o in risibili sottointrecci romantico-sessuali.
Destra-sinistra, rossi e neri, le ragioni della politica sfumano nella cronaca della morte annunciata, e poi dissimulata, del povero amante di Raoul Bova, deflagrato da due minori e dal “vuoto” carnale della Cucinotta. Vedova nera che tenta di riempirsi l'anima con abbracci materni.

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